Il mio Blog
Ciao! Nel mio Blog condivido contenuti frutto della mia esperienza diretta, arricchiti da riflessioni e intuizioni nate dalla collaborazione con diverse organizzazioni, come aziende, enti pubblici, associazioni, gruppi multi-stakeholders, cooperative. Ogni articolo è pensato per offrire un contributo significativo, suggerimenti pratici e stimolare l’autoriflessione su temi specifici. Che tu voglia approfondire tecniche o semplicemente trarre ispirazione, sei nel posto giusto. Buona lettura.

Cosa accomuna un’idea nata in un campo profughi in Kenya e una visione digitale lanciata a Capri?
Due incontri. Due visioni potentissime. Due mondi apparentemente distanti, eppure uniti da qualcosa di raro: la capacità di trasformare un’idea in realtà, anche in condizioni apparentemente avverse.

Si impara sempre.
Anche quando le situazioni sono scomode. Anzi, soprattutto allora.
Ultimamente, mi è capitato di vivere un’esperienza professionale che, con il senno di poi, mi è sembrata una lezione accelerata su come l’opportunismo possa travestirsi da buonismo.
Un caso da manuale, se mai servisse aggiornare i manuali.
La dinamica è semplice, ma il messaggio che veicola è più sottile.
E, proprio per questo, più pericoloso.
Capita soprattutto in certi contesti organizzativi.
Quelli in cui non c’è un vincolo stringente al risultato, nessuna reale pressione legata all’impatto generato o al profitto da garantire.
Contesti dove il valore aggiunto è spesso autodefinito, la qualità difficile da misurare, e le scelte interne rispondono più a equilibri relazionali che a criteri progettuali.

Succede. Più spesso di quanto vorremmo ammettere.
Portiamo metodi innovativi, strumenti raffinati, approcci frutto di anni di studio, di lavoro su di sé, di esperienza viva. Li portiamo con cura, con passione quasi artigianale, li offriamo convinti che accadrà qualcosa di magico.
E invece... niente.
Lo sguardo spento. La reazione di cortesia. L'interesse che evapora più velocemente di una pozzanghera ad agosto.
E allora, puntuale come una tassa dimenticata, arriva il pensiero: "Ho appena dato perle ai porci."
La grande illusione: che basti che qualcosa sia buono, utile, trasformativo perché venga accolto. La grande lezione: non basta. Non è mai bastato. E non è una questione di valore: è una questione di prontezza.

In occasione della Festa della Liberazione, che ricorda un passaggio storico di emancipazione esteriore, diventa quasi urgente in questo momento storico volgere lo sguardo anche a un altro tipo di liberazione, più silenziosa ma non meno decisiva: quella interiore, individuale e collettiva.
Una riflessione che, se portata nel contesto organizzativo, si rivela quanto mai urgente.
Le organizzazioni oggi sono chiamate a cambiare, a innovare, a evolvere. Ma la trasformazione autentica non può avvenire solo attraverso nuove procedure o strumenti tecnici.
Senza un processo profondo di liberazione dalle rigidità interne — mentali, emotive, relazionali — il cambiamento resta superficiale e facilmente destinato a fallire.

Lavorando con le organizzazioni, tra le criticità che raccolgo spunta spesso la stessa storia: una sostenibilità green trasformata in un labirinto di adempimenti. Peccato che, più che cambiamento, producano soprattutto... burocrazia verde a chilometro zero.
Abbiamo inventato la sostenibilità a colpi di norme, certificazioni, protocolli. E valutazioni di qua, e verifiche di là della sostenibilità.
Ci siamo messi a spuntare caselle, a dichiarare adesioni a iniziative internazionali, a compilare report dove la parola green batte qualsiasi altro termine per numero di presenze.
Peccato che la realtà fuori dai documenti si ostini a non migliorare alla stessa velocità.
Mentre aderiamo a tutto ciò che suona sostenibile, continuiamo a usare, consumare, produrre secondo logiche che hanno ben poco di rigenerativo.
È come cambiare l’etichetta su una bottiglia e pensare di aver cambiato il contenuto.
Il problema?
Adeguiamo i comportamenti superficiali, ma il paradigma di fondo – quello che davvero plasma il nostro modo di vivere, lavorare, produrre – resta com’è.

Questo articolo non ha l’obiettivo di essere un’analisi tecnica sull’intelligenza artificiale (IA), né intende affrontare il tema con l’autorità di un esperto del settore. Né tantomeno intende essere una disquisizione filosofica o etica. E nemmeno una seduta spiritica su cosa diventeremo tra vent'anni.
Piuttosto, vuole essere una riflessione personale, in parte ironica, nata da due anni di sperimentazioni dirette e dall’osservazione di come l’IA può interagire con il nostro pensiero, il nostro tempo e, in ultima analisi, con la capacità dell'essere umano di esprimere il proprio potenziale.

Esserci, davvero. Questo è forse l’elemento più trascurato eppure più determinante nella leadership di oggi. Non basta agire, decidere, coordinare. La vera svolta inizia nel momento in cui un leader – o una persona che si scopre tale in una situazione – si ferma e si chiede: che impatto ho? Di che tipo di potere dispongo? Come lo sto usando? La leadership non è un ruolo assegnato, è uno stato di presenza, una responsabilità che si attiva anche solo nel momento in cui si è osservati, ascoltati, seguiti, anche solo per un gesto. È un campo vivo, non una casella in organigramma.

Sbagliare fa parte del gioco, ma la vera sfida è cosa ne facciamo dopo. Se a livello personale possiamo (più o meno) ammettere i nostri errori, nelle organizzazioni la musica cambia. Qui l’errore diventa una creatura mitologica: tutti sanno che esiste, ma pochi osano nominarlo. Si insabbia, si maschera, si trasforma in una gara a chi trova il colpevole.
Il risultato? Una organizzazione che inciampa sempre sugli stessi problemi, che invece di migliorare affonda nei suoi stessi guai. Ma ecco il colpo di scena: se invece di evitarlo, l’errore diventasse un trampolino di lancio per innovazione e crescita?

La cultura organizzativa non è un mero slogan da appendere in sala riunioni o una mission patinata da mostrare sul sito web. È il sistema invisibile che plasma le interazioni, le decisioni e persino l'umore quotidiano di un'azienda. Nell'esperienza reale, molte organizzazioni – pubbliche e private – si trovano a lottare con relazioni complicate tra dipendenti e dirigenti, tra gli stessi dirigenti o figure apicali, comunicazioni inefficaci, dinamiche di potere rigide e leadership altalenanti. Il tutto accompagnato dalla scarsa consapevolezza dell’impatto che queste dinamiche hanno sul successo dell’organizzazione.
Ma, come in un laboratorio alchemico, queste difficoltà possono diventare la materia prima per una trasformazione radicale. Piuttosto che rassegnarci, possiamo ripensare l’organizzazione trasformando ogni tensione in un’opportunità. I principi alla base di una cultura viva si trovano nell’arte del continuo apprendimento e nella capacità di dare visibilità alle dinamiche relazionali invisibili. Oggi, oltre a ripensare l’efficienza interna, c’è l’imperativo di abbracciare una responsabilità sociale autentica, che integri nel proprio DNA non solo il profitto, ma anche il benessere dei dipendenti e della comunità.

La governance multi-stakeholder, o governance multipartecipativa, viene spesso presentata come il Sacro Graal della collaborazione.
Ma cosa è? La governance multi-stakeholder, o governance multipartecipativa, è un modello di governo in evoluzione che integra attivamente le diverse parti interessate nel processo decisionale e nell'attuazione di politiche per la gestione del bene comune o di altri interessi.
L’idea è semplice: mettiamo intorno a un tavolo tutti gli attori coinvolti, creiamo un bel processo di dialogo, e come per magia emergeranno soluzioni innovative e condivise.
In teoria, funziona. In pratica? Beh, qualche volta sì, molte altre volte il processo si incaglia tra burocrazia, agende sovraccariche e una certa tendenza alla partecipazione di facciata. Il tutto condito da rituali ormai noti: un evento di lancio entusiasmante, incontri ricchi di promesse e… un finale a sorpresa (spoiler: spesso nessuna sorpresa).

Quando ci troviamo a lavorare in gruppo, tendiamo a concentrarci su parole, idee e azioni, dimenticando spesso che il corpo è parte integrante del processo. Sono consapevole che in questo articolo tratto un tema estremamente marginalizzato nel vivere comune. Tuttavia, il corpo comunica tensioni, connessioni e dinamiche sottili che modellano l’esperienza collettiva. Portare consapevolezza al corpo significa attivare una comprensione più profonda delle relazioni e dei conflitti, trasformandoli in opportunità di crescita e connessione.

Ogni nuovo anno porta con sé un senso di rinnovamento, una promessa di cambiamento e una spinta a migliorare. Non è un caso che il tema dei propositi e delle intenzioni sia un classico in questo periodo dell'anno: un rituale tanto diffuso quanto, spesso, banale e scontato. A livello personale e organizzativo, è frequente che i buoni propositi inizino con entusiasmo, ma svaniscano già entro il mese di febbraio.
Tuttavia, in un mondo complesso e in costante evoluzione, il 2025 invita a un approccio diverso: superare i classici "buoni propositi" per abbracciare intenzioni profonde e visioni consapevoli. Questo articolo esplora come le organizzazioni possano trasformare il tradizionale processo di pianificazione in un'opportunità per ridefinire il proprio ruolo e impatto, partendo da un livello più umano e sistemico.

Hai mai osservato un team in difficoltà? Magari l’energia che scorreva inizialmente è svanita, lasciando spazio a tensioni, incomprensioni e silenzi imbarazzanti. Che si tratti di un progetto aziendale, di un team multiculturale o di una squadra di lavoro appena formata, spesso il problema non è nelle competenze tecniche, ma nelle dinamiche umane.
E se ti dicessi che la natura ci offre una bussola per ritrovare equilibrio e armonia? I 4 elementi naturali – terra, acqua, aria e fuoco – non sono solo archetipi poetici, ma strumenti pratici per affrontare tensioni, costruire fiducia e ispirare connessione. Nel mio lavoro, utilizzo questi elementi, insieme agli archetipi junghiani, per aiutare le persone e i team a esplorare le loro relazioni in modi nuovi e trasformativi.

A prima vista, parlare di project management può sembrare banale, quasi scontato, soprattutto se confrontato con tematiche di grande impatto. Eppure, qualunque progetto – che sia finanziato, aziendale, personale o istituzionale – richiede sempre una dose consapevole di gestione. Non basta avere un bel piano su carta: per trasformare un’idea in realtà occorre agire, con passione e attenzione, per dare forma a ciò che, inizialmente, esiste solo nel regno dell’immaginazione.
Per me, il project management rappresenta molto più di una serie di fasi standardizzate. È lo specchio attraverso cui un’organizzazione rivela la propria cultura organizzativa: la capacità e la modalità di trasformare la vision, la mission e i valori in azioni concrete. Come sempre nei miei articoli mi interessa trattare aspetti diversi di un tema che vanno oltre la realtà cosiddetta visibile e materiale.

Di recente, ho avuto il non piacere di trovarmi in situazioni tutt’altro che gratificanti con alcuni fornitori di servizi e consulenti. Come spesso accade, all’inizio sembrava tutto promettente: promesse di risultati straordinari, discorsi accattivanti, un apparente interesse per i miei bisogni. Poi, alla prova dei fatti, la montagna ha partorito un topolino. E non uno qualunque: uno che saltellava su poco ascolto, tanta autoreferenzialità e nessuna reale attenzione.
Non è stato un singolo episodio, ma ben tre esperienze simili. Questo mi ha portata a riflettere profondamente sul ruolo di chi offre un servizio e su quello di chi lo cerca. Entrambi hanno responsabilità: il fornitore non può limitarsi a erogare un servizio in modo standardizzato, e il cliente deve essere in grado di partecipare al processo, chiarendo i propri bisogni e difendendo il proprio spazio.

Come evitare di dire le solite cose e le solite banalità sul conflitto? Che è un’opportunità, ok, lo sappiamo tutti. Che porta sfide e disagi, certo, anche questo è chiaro. Ma è e resta una delle più grandi difficoltà umane nella gestione delle relazioni.
Io per prima mi trovo costantemente a fronteggiare sfide in questo senso. Nonostante anni di lavoro interiore e studio, il conflitto continua a stimolarmi, a mostrarmi qualcosa di nuovo, a darmi filo da torcere. E allora mi chiedo: cos’è che non abbiamo ancora capito sul conflitto? Abbiamo teorie, studi, analisi sugli stili di reazione (“fly, freeze, fight”). Ma qual è la chiave di volta?

Affrontare trasformazioni è un’opportunità per crescere e innovare. Il coaching sistemico orientato al processo e al corpo supporta team e leader a ridefinire processi, valorizzare risorse e migliorare dinamiche di gruppo. Guidato da obiettivi chiari e misurabili, il coaching stimola consapevolezza, benessere e autosviluppo, rendendo il cambiamento sostenibile e condiviso.
Un caso pratico ha visto un team con ruoli poco chiari e resistenze al cambiamento. Grazie all’analisi delle connessioni interne e a esercizi corporei per riconoscere tensioni e blocchi, l’organizzazione ha migliorato la collaborazione, chiarito la leadership e creato soluzioni condivise.
Il coaching sistemico orientato al processo e al corpo integra mente, corpo, emozioni e relazioni, favorendo l’equilibrio e il progresso in ogni aspetto dell’organizzazione.

Qual è il legame tra benessere organizzativo e innovazione? In molte organizzazioni, il benessere è stato per lungo tempo considerato un “di più,” ma oggi emerge come elemento chiave per favorire la produttività e l’innovazione. Senza un ambiente di lavoro in cui le persone si sentono coinvolte, rispettate e libere di esprimere idee, l’innovazione stenta a crescere.
Studi dimostrano che i lavoratori felici sono più produttivi e capaci di generare idee nuove, mentre il benessere crea un contesto fertile per la creatività. Tuttavia, molte organizzazioni continuano a ignorare questa connessione e si concentrano solo sui risultati immediati, soffocando la crescita a lungo termine.
Per far fiorire l’innovazione, serve un ambiente di lavoro positivo, con attenzione alla diversità, alla crescita personale, a una leadership empatica e a spazi di ascolto. In breve, il benessere organizzativo non è un lusso, ma una leva per una cultura dell’innovazione.

In un contesto aziendale in rapida evoluzione, il successo di un'organizzazione dipende dalla sua capacità di comprendere a fondo le proprie dinamiche interne ed esterne. Spesso, il potenziale di crescita è nascosto in interazioni e processi meno visibili, che sfuggono all'attenzione. Basandomi sulla mia esperienza con diverse organizzazioni, rilevo che una comprensione approfondita di queste dinamiche migliori non solo la comunicazione e l'efficienza, ma anche identifichi blocchi e resistenze che ostacolano innovazione e crescita.

Questo articolo nasce da un'esperienza recente in un percorso di co-design e gestione del cambiamento, dove ho affrontato la sfida di superare le resistenze di alcuni leader nel coinvolgere attivamente i collaboratori. In altre occasioni, è stato più semplice creare una connessione.

L'innovazione sociale rappresenta un approccio strategico per affrontare sfide sociali complesse attraverso nuove idee, pratiche e modelli. Negli ultimi quindici anni, questa forma di innovazione ha guadagnato rilevanza, evidenziando l'importanza di rispondere a esigenze sociali insoddisfatte in modo sostenibile e inclusivo.
Tuttavia, è fondamentale interrogarsi: quante delle iniziative che si autodefiniscono "innovazione sociale" sono realmente in grado di produrre un impatto significativo?

La comunicazione nelle organizzazioni è fondamentale e si esprime nei rapporti tra pari, tra responsabili e collaboratori, e nei diversi livelli e settori. Chiarezza, empatia e consapevolezza sono essenziali per prevenire confusione, aspettative deluse e perdita di fiducia. Le cause della mancanza di chiarezza includono la paura del conflitto e l'incertezza personale, con un'enfasi particolare sull'importanza dell'ascolto attivo. Inoltre, è utile adottare strumenti pratici per migliorare la comunicazione, come la definizione chiara dei ruoli, riunioni strutturate, feedback costruttivo, strumenti di collaborazione, sessioni di debriefing e formazione sulla gestione dei conflitti e comunicazione interpersonale.

La resilienza organizzativa non è semplicemente una reazione agli imprevisti. È una competenza strategica fondamentale che consente alle organizzazioni di anticipare, affrontare e prosperare nel cambiamento. Le sfide esterne come l’incertezza economica, la rapida evoluzione tecnologica e la resistenza interna al cambiamento possono destabilizzare una organizzazione. Tuttavia, attraverso un approccio strutturato e centrato sulle persone, è possibile trasformare queste sfide in opportunità.

Creatività e innovazione sono strettamente connesse, ma diverse: la creatività nasce dalla connessione interiore e genera nuove idee, mentre l'innovazione le trasforma in soluzioni pratiche. Un ambiente che valorizza la creatività migliora problem-solving, coinvolgimento, resilienza e impatto esterno. Per favorire creatività e innovazione, sono utili tecniche come visualizzazione grafica, mindfulness, spazi creativi e sessioni di brainstorming. La Teoria U supporta una trasformazione profonda, co-creando soluzioni sostenibili.

La consapevolezza organizzativa è la capacità di una organizzazione di comprendere e gestire efficacemente le proprie risorse, le dinamiche di team e le interazioni con l'ambiente esterno. Questo approccio permette alle organizzazioni di adattarsi ai cambiamenti, ottimizzare la collaborazione e migliorare il benessere interno. I principali benefici includono un miglioramento delle performance, un ambiente più aperto all'innovazione e una maggiore resilienza di fronte alle sfide.

Nella mia esperienza personale e professionale, ho visto quanto la meditazione possa trasformare non solo le persone, ma anche i contesti lavorativi. Ho iniziato a praticare meditazione anni fa, in un momento in cui cercavo equilibrio tra lavoro e vita personale. Questa pratica mi ha insegnato a rallentare, ascoltarmi e ritrovare una chiarezza mentale che oggi considero essenziale. Portare questa consapevolezza nelle organizzazioni è diventata una mia missione, perché credo profondamente che il benessere individuale sia il primo passo verso il benessere collettivo.
La meditazione in azienda non solo riduce stress e ansia, ma migliora le relazioni e il clima lavorativo, favorendo un ambiente più sereno e collaborativo.

Il Living Lab è un approccio innovativo che combina sperimentazione pratica e coinvolgimento attivo degli utenti finali per sviluppare, testare e validare soluzioni concrete, come nuovi modelli di business o tecnologie emergenti. Questo ambiente collaborativo permette a ricercatori, aziende, PA e cittadini di co-creare soluzioni, utilizzando strumenti strutturati come il Design Thinking, il Lean Canvas e tecniche di prototipazione rapida. Il successo di un Living Lab dipende dall'uso di metodologie efficaci per raccogliere feedback, iterare soluzioni e garantire la scalabilità delle innovazioni.

Nel panorama delle organizzazioni di oggi, affrontare le trasformazioni non è più solo una necessità, ma un'opportunità per creare un cambiamento profondo e sostenibile. Quando team e leader sono messi alla prova da sfide come la ridefinizione dei processi, la valorizzazione delle risorse o il miglioramento delle dinamiche di gruppo, il coaching organizzativo può diventare uno strumento potente per innescare nuove consapevolezze e costruire percorsi di trasformazione.

Il co-design coinvolge attivamente le parti interessate nella creazione di soluzioni per bisogni specifici, differenziandosi dalla progettazione classica "confezionata" a "desktop" senza contatto con i destinatari, utenti, fruitori interessati. La facilitazione gioca un ruolo chiave nel guidare questi processi, creando un ambiente di lavoro inclusivo.
Il co-design garantisce la partecipazione attiva e la generazione di soluzioni mirate e sostenibili. Vengono esplorati vari campi di applicazione, metodologie e strumenti pratici.