Perle ai porci (e va bene così)

05/10/2025
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Succede. Più spesso di quanto vorremmo ammettere.

Portiamo metodi innovativi, strumenti raffinati, approcci frutto di anni di studio, di lavoro su di sé, di esperienza viva. Li portiamo con cura, con passione quasi artigianale, li offriamo convinti che accadrà qualcosa di magico.

E invece… niente.

Lo sguardo spento. La reazione di cortesia. L’interesse che evapora più velocemente di una pozzanghera ad agosto.

E allora, puntuale come una tassa dimenticata, arriva il pensiero: “Ho appena dato perle ai porci.”

La grande illusione: che basti che qualcosa sia buono, utile, trasformativo perché venga accolto. La grande lezione: non basta. Non è mai bastato. E non è una questione di valore: è una questione di prontezza.

Forzare il campo: il modo migliore per bruciarlo

Ammetto senza vergogna: in alcuni casi, lo sapevo già.

Quella sensazione sottile che suonava come un allarme a bassa frequenza: “Non è il momento. Non è il luogo.”

Eppure, ho forzato.

Con la nobiltà un po’ arrogante di chi pensa di fare comunque del bene, ho insistito. Però, insistere contro il campo è come voler coltivare il deserto con l’acqua minerale: uno spreco costoso e una frustrazione garantita.

Lezione imparata: non tutto ciò che è buono attecchisce subito. Non è il seme, è il terreno.

Non forzare è atto d’amore verso ciò che si porta. E verso chi, magari, non è ancora pronto ad accoglierlo.

Rischiare, sempre. Forzare, mai.

Attenzione però: non è un invito a diventare prudenti, tiepidi, calcolatori.

Il rischio resta sacro.

Rischiare significa proporre qualcosa di vero anche sapendo che potrebbe non essere accolto. Forzare, invece, è cercare di infilare il seme a forza in una roccia, convinti che con abbastanza sforzo ce la si farà.

Rischiare è generoso.

Forzare è disperato.

E in mezzo c’è la sottile arte di sentire: “Sto rischiando perché credo, o sto forzando perché temo?”

Auto-osservarsi: l’unico vero antidoto

Ogni volta che porto un metodo, uno strumento, una proposta nuova, prima ancora di guardare fuori, mi guardo dentro.

Mi chiedo:

  • “Sto proponendo qualcosa in cui credo davvero, o c’è una parte di me che cerca conferma?”
  • “Sento coerenza piena, o sto spingendo per bisogno?”
  • “Il campo è davvero il problema, o sto chiedendo al campo di compensare una mia insicurezza?”

È una domanda che non fa sconti. Ma è l’unica che libera.

Il campo ha sempre ragione (anche quando ha torto)

Il campo ha sempre ragione.

Non perché sia illuminato o saggio. Ma perché è ciò che è, non ciò che vorremmo che fosse.

E lavorare con ciò che è, è l’unica vera alchimia.

Se il terreno è arido, non è questione di giudicarlo. È questione di riconoscerlo, senza cedere al vittimismo del “non mi capiscono” o alla presunzione del “sono troppo avanti”.

Il campo si lavora con pazienza, con fiducia, con la certezza che ogni seme sa quando è il suo tempo.

Le perle non sono mai sprecate

Alla fine, ogni perla offerta è un gesto di fiducia.

Anche quando cade nel fango. Anche quando non viene riconosciuta.

Perché il gesto stesso di offrire, senza giudizio, è già parte del cambiamento che vogliamo vedere.

E forse, mentre ci disperiamo perché il campo sembra sordo, da qualche parte, in silenzio, un seme sta già germogliando.