Lavorando con le organizzazioni, tra le criticità che raccolgo spunta spesso la stessa storia: una sostenibilità green trasformata in un labirinto di adempimenti. Peccato che, più che cambiamento, producano soprattutto… burocrazia verde a chilometro zero.
Abbiamo inventato la sostenibilità a colpi di norme, certificazioni, protocolli. E valutazioni di qua, e verifiche di là della sostenibilità.
Ci siamo messi a spuntare caselle, a dichiarare adesioni a iniziative internazionali, a compilare report dove la parola green batte qualsiasi altro termine per numero di presenze.
Peccato che la realtà fuori dai documenti si ostini a non migliorare alla stessa velocità.
Mentre aderiamo a tutto ciò che suona sostenibile, continuiamo a usare, consumare, produrre secondo logiche che hanno ben poco di rigenerativo.
È come cambiare l’etichetta su una bottiglia e pensare di aver cambiato il contenuto.
Il problema?
Adeguiamo i comportamenti superficiali, ma il paradigma di fondo – quello che davvero plasma il nostro modo di vivere, lavorare, produrre – resta com’è.
Greenwashing? Capitalismo col cappello verde? Pura coreografia.
Basta fingerci più virtuosi di quanto siamo.
Le maschere sono scivolate da un pezzo: tanto vale prenderne atto e ricominciare da qualcosa di vero.
La sostenibilità da catalogo
Benvenuti nel teatro della sostenibilità, dove persone e organizzazioni recitano la loro parte con entusiasmo degno di un Oscar. Il copione? Sempre lo stesso: dichiarazioni d’amore per l’ambiente, impegni solenni verso un futuro verde e promesse di salvezza planetaria. Peccato che, dietro le quinte, si continui a sfruttare risorse come se non ci fosse un domani.
Il greenwashing è diventato l’arte di tingere di verde anche le pratiche più discutibili, mentre il sistema economico si traveste da paladino della natura, con tanto di foglia di fico ecologica. Una performance che offende l’intelligenza e la natura stessa, ridotta a comparsa in uno spettacolo di ipocrisia.
Non sono qui per raccogliere applausi o like. Anzi, se questo articolo vi irrita, forse sta facendo il suo dovere. È tempo di smettere di fingere attenzione e calare la maschera. La sostenibilità non è un costume da indossare a piacimento, ma un impegno reale che richiede coerenza e azione.
Oggi la sostenibilità rischia di ridursi a una grande operazione cosmetica: burocrazia verde, marketing etico, narrazioni rassicuranti.
Il rischio è quello di trattare la Terra come un cliente da soddisfare giusto quanto basta per non perdere immagine.
Ma un cambiamento di facciata non cambia il destino di nessuno, tantomeno quello del pianeta.
La verità più scomoda è che non basta compilare checklist per riconnettersi davvero alla vita.
Serve un cambio di postura, di ascolto, di relazione.
Serve ricucire il legame tra quello che facciamo e quello che siamo. perfino in modo spropositato.
E magari riderci sopra, subito dopo.
Il Lavoro che Riconnette: il filo invisibile da ricucire
Joanna Macy, con il suo Lavoro che Riconnette, ha indicato una strada chiara: non c’è vera sostenibilità senza una riconnessione interiore.
Non si tratta di “salvare l’ambiente” come fosse qualcosa fuori da noi, ma di ricordare che siamo l’ambiente.
Non si tratta solo di emissioni o certificazioni: si tratta di come sentiamo, pensiamo e agiamo nel nostro rapporto con la vita.
Questa è la differenza tra cambiare le regole e cambiare il modo di esistere.
Teoria U: scendere a fondo per riemergere nel vero cambiamento
Otto Scharmer l’ha raccontato bene con la sua Teoria U:
Non crei il futuro replicando il passato con un vestito nuovo.
Per trasformare davvero, occorre fermarsi, ascoltare profondamente ciò che sta emergendo, lasciar andare vecchie abitudini e co-creare un’altra possibilità.
E questo, inutile girarci attorno, richiede coraggio.
Non basta aderire a nuovi standard.
Serve disimparare e poi ricominciare.
Curare la Terra, per curare noi stessi
Theodore Roszak, padre dell’Ecopsicologia, ce lo aveva già mostrato decenni fa:
la crisi ecologica è anche una crisi psicologica.
Perché la separazione dall’ambiente esterno rispecchia la separazione da noi stessi.
Non rigeneriamo la natura senza rigenerare il nostro sguardo.
Non risaniamo il mondo se non tocchiamo anche le nostre ferite di disconnessione.
Ecologia interiore ed ecologia planetaria vanno di pari passo.
Tre modi concreti per non farsi fregare dalla sostenibilità di facciata
1. Passare dal raccontare il cambiamento all’abitarlo (Ascolto profondo + Sensing Journey)
- Non basta parlare di cambiamento. Occorre sentirlo.
Inizia a uscire dal perimetro sicuro dei report e dei dati: vai incontro ai luoghi, alle persone, ai contesti reali. - Come?
- Organizza Sensing Journeys: esperienze dirette nel territorio, nei processi produttivi, nelle comunità che vivono le sfide ambientali ogni giorno.
- Pratica l’Ascolto Empatico e Generativo: non per confermare quello che sai, ma per lasciarti sorprendere da ciò che non sapevi di non sapere.
- Perché?
La trasformazione reale nasce da un ascolto che attraversa la mente e tocca il cuore, non da modelli prefabbricati.
2. Dalla certificazione al radicamento interiore (Connessione ecocentrica + Lavoro che Riconnette)
- Non bastano gli standard se mancano le radici.
Prima di aderire all’ennesima etichetta “green”, chiediti: “Da dove nasce la mia azione?” - Come?
- Pratica la connessione ecocentrica: ogni giorno ritrova un punto di contatto vivo con la Terra (non metaforico: reale, fisico, corporeo).
- Integra momenti di silenzio naturale, esperienze di embodied awareness, piccoli rituali ecologici nel quotidiano organizzativo.
- Coltiva il senso di appartenenza profonda alla rete della vita, come invita Joanna Macy nel “Lavoro che Riconnette”.
- Perché?
Solo chi si sente parte di un organismo più grande agisce con rispetto autentico, non per dovere o per immagine.
3. Sperimentare subito e imparare in cammino (Prototipazione + Teatro della presenza + Leadership diffusa + Mindfulness Ecologica)
- Come?
a. Applica il metodo della Prototipazione: sviluppa micro-azioni di cambiamento (piccole, rapide, concrete) e osserva cosa funziona e cosa va modificato.
b. “Per capire davvero cosa succede in un’organizzazione non basta leggere report o fare riunioni: bisogna anche vederlo e sentirlo. Così come le costellazioni organizzative sviluppate prima della Teoria U, il Teatro sociale della presenza (Teoria U) permette di mettere in scena — senza parole — come stanno in relazione le persone, i processi, le energie. Chi è vicino a chi? Dove si crea distanza o blocco? Come si muove il sistema?
Quando il corpo racconta la verità che le parole nascondono, il cambiamento diventa possibile.
c. Alimenta la leadership distribuita: ognuno, a partire dal proprio spazio d’azione, può diventare un nodo attivo del cambiamento.
d. Accompagna ogni fase con una pratica di mindfulness ecologica: essere presenti alla vita che si manifesta, senza giudicare, senza controllare tutto.
- Perché?
Non cambiamo il sistema con grandi discorsi, ma con passi reali, visibili, sentiti, anche imperfetti.Il vero cambiamento nasce quando smettiamo di pensare alla sostenibilità come una pratica da dichiarare e iniziamo a viverla ogni giorno, anche nei piccoli gesti. Non serve scrivere documenti più belli. Serve creare esperienze reali di connessione, cura, responsabilità condivisa.
Domande per riflettere
- Quali parti di me si muovono quando parlo di sostenibilità?
- Qual è la differenza, per me, tra aderire a una regola e vivere un cambiamento reale?
- Se togliessi tutte le parole “green” dai miei progetti… cosa rimarrebbe?
- Cosa mi guida nelle scelte quotidiane quando nessuno mi osserva?
- Cosa cambierebbe nella mia vita se vedessi la natura non come “qualcosa fuori”, ma come “qualcosa che sono”?