Organizzazioni: il buonismo che opprime

05/24/2025
Organizzazioni: il buonismo ce opprime

Si impara sempre.
Anche quando le situazioni sono scomode. Anzi, soprattutto allora.

Ultimamente, mi è capitato un caso studio che, con il senno di poi, mi è sembrata una lezione accelerata su come l’opportunismo possa travestirsi da buonismo.
Un caso da manuale, se mai servisse aggiornare i manuali.
La dinamica è semplice, ma il messaggio che veicola è più sottile.
E, proprio per questo, più pericoloso. Capita soprattutto in certi contesti organizzativi.

Quelli in cui non c’è un vincolo stringente al risultato, nessuna reale pressione legata all’impatto generato o al profitto da garantire.
Contesti dove il valore aggiunto è spesso autodefinito, la qualità difficile da misurare, e le scelte interne rispondono più a equilibri relazionali che a criteri progettuali.

E’ davvero inclusione?

Parliamo di quelle situazioni in cui, sotto la copertura di parole accoglienti (“dobbiamo includere tutti”, “serve dare spazio a più persone”, “vogliamo essere equi”), si prendono decisioni che:

  • ignorano l’esperienza e soprattutto le competenze reali,
  • premiano i legami anziché i contributi,
  • affidano ruoli strategici a chi è più “funzionale” dal punto di vista relazionale o politico,

Non si tratta di errori occasionali.
Ma di un’impostazione che si ripete.
Con la convinzione (più o meno esplicita) che basti essere “buoni”, inclusivi a parole, per fare le scelte giuste.

Perché è un problema?

Perché l’opportunismo, anche se ben confezionato, produce esclusione reale.

Quando il valore sembra un problema

Questa logica si nutre di una narrazione tanto diffusa quanto disfunzionale:
che chi lavora troppo, o bene, o con visibilità, stia in qualche modo rubando spazio agli altri.
Come se la professionalità fosse una risorsa da razionare.
Come se fosse più importante “non dare fastidio” che generare impatto.
Come se fossimo — per l’appunto — al mercato, dove bisogna bilanciare i pesi per non scontentare nessuno.

Siamo ufficialmente passati dal piano professionale a quello emotivo.

Dal riconoscimento dei contributi al senso di colpa.
Come se partecipare con competenza fosse un abuso.
Come se portare valore significasse prendere spazio agli altri.
Come se ci fosse un mercato rionale della professionalità, dove i progetti si distribuiscono “a occhio”, per non fare torto a nessuno.

Un linguaggio che orienta (più di quanto sembri)

Molte di queste dinamiche si giocano anche nel modo in cui si comunica.
Non tanto in cosa si dice, ma in come lo si dice.

Certe formule — apparentemente neutre, persino gentili —
trasmettono in realtà una logica distributiva che scavalca quella generativa.
Non si ragiona su cosa serve davvero al progetto, ma su come fare in modo che “nessuno resti indietro”.
Intento nobile, certo.
Ma quando si traduce in una sorta di rotazione cautelativa dei ruoli, diventa un freno.

E chi ha visione, chi porta idee, chi ha fatto il lavoro silenzioso negli anni, si trova talvolta a fare i conti con un sentimento ambiguo:
come se, più che contribuire, stesse togliendo qualcosa a qualcun altro.

E allora?

Allora forse è tempo di uscire dalla retorica della giustezza universale,
e tornare a una grammatica più essenziale:
quella dell’aderenza tra ruolo e competenza, tra responsabilità e preparazione, tra scelte e risultati attesi.

Non si tratta di tornare a modelli competitivi, escludenti, gerarchici.
Si tratta, piuttosto, di ricordare che l’inclusione senza criteri chiari genera confusione,
e che il buonismo senza coraggio è solo una forma gentile di conservazione.

Se vogliamo che i talenti abbiano spazio reale, non basta lasciarli entrare: bisogna anche smettere di metterli in panchina con eleganza.

Alternative? Certo. Ma richiedono consapevolezza.

Se vogliamo davvero costruire organizzazioni sane — anche nei processi più delicati, nei progetti a vocazione sociale, nei contesti complessi —
dobbiamo:

📍 Distinguere l’inclusione dalla compensazione.
Non si costruisce equità togliendo a chi ha valore, ma creando contesti dove quel valore possa essere messo a disposizione senza essere spogliato.

📍 Uscire dal modello “chi prende, chi lascia”.
La professionalità non è un premio da dividere in fette uguali. È un sistema di contributi che devono potersi esprimere in modo libero, equo, chiaro.

📍 Ascoltare cosa comunicano certe parole.
Espressioni come “dare spazio ad altri” possono suonare inclusive. Non sono neutre. Spesso implicano che chi lavora “troppo” vada contenuto, moderato, neutralizzato. Contiene un’accusa implicita: stai lavorando troppo. Stai prendendo più di quanto ti spetta.
La domanda giusta è un’altra: chi è in grado di contribuire meglio, in questo momento, a questo obiettivo?

Cosa si può imparare da tutto questo?

Molto.
Non su chi ha deciso cosa.
Ma su come si tengono insieme (o si evitano) le scelte nelle organizzazioni.

Ecco tre apprendimenti utili e trasferibili:

  1. L’inclusione non è distribuzione orizzontale.
    Non tutto va bene per tutti. Valorizzare significa anche affidare con coraggio, non solo “fare partecipare”.
  2. Il linguaggio crea realtà.
    Le parole gentili possono contenere messaggi ambigui.
    Essere consapevoli di cosa si trasmette davvero è già un atto trasformativo.
  3. Non tutto ciò che è strategico migliora la strategia. Quando arrivano “altre necessità”: ampliare le reti, attivare contatti, rispondere a equilibri istituzionali. Tutto legittimo, certo. Ma quando questo sostituisce il criterio progettuale, qualcosa si incrina. Non è questione di merito. È questione di coerenza. E ogni volta che si sceglie “chi porta relazioni” invece di “chi porta visione”, bisognerebbe chiedersi: “Questa scelta migliora la qualità di ciò che stiamo costruendo?”

Farsi domande. Anche scomode.

  • Sto scegliendo chi è più utile… a cosa?
  • A quale equilibrio sto rispondendo?
  • Cosa sto evitando, con questa decisione?
  • Se fossi io dall’altra parte, come la leggerei?

In certi contesti, più che un’organizzazione sembra una sagra.
Si distribuiscono ruoli come si distribuiscono fette di torta: un po’ per uno, nessuno si senta escluso.
Peccato che poi, alla fine della festa, restano solo i piatti da lavare — e quelli che li lavano davvero.

Se non iniziamo a riconoscere questi meccanismi per quello che sono,
continueremo a parlare di “valore” mentre lo svuotiamo.
Continueremo a parlare di “inclusione” mentre la usiamo per escludere.
Continueremo a parlare di “strategie” mentre scegliamo per convenienza.

E a quel punto, sì: più che al mercato, sembreremo in saldo.