Cosa accomuna un’idea nata in un campo profughi in Kenya e una visione digitale lanciata a Capri?
Due incontri. Due visioni potentissime. Due mondi apparentemente distanti, eppure uniti da qualcosa di raro: la capacità di trasformare un’idea in realtà, anche in condizioni apparentemente avverse.
È quello che ho percepito nitidamente in due incontri ravvicinati, a distanza di un giorno l’uno dall’altro.
Il primo con Niccolò Govoni, fondatore di Still I Rise, che ho ascoltato parlare con intensità e chiarezza del progetto che intende realizzare – e che desidero sostenere – per aprire a Napoli la prima scuola italiana Still I Rise: un’idea educativa radicale e assolutamente innovativa, già concretizzata in contesti estremi come Kenya, Siria, Turchia, Grecia, Congo, Yemen e Colombia.
La visione educativa di Still I Rise ribalta i modelli tradizionali: al centro non c’è la performance, ma l’emancipazione, la responsabilità condivisa e la centralità dello studente. È la prima scuola gratuita al mondo ad aver ottenuto la certificazione del Baccalaureato Internazionale (IB) per bambini profughi e vulnerabili, portando l’eccellenza educativa dove spesso manca anche l’essenziale.
Anche gli spazi riflettono questo approccio: modulari, non gerarchici, strutturati in stazioni di apprendimento che favoriscono movimento, collaborazione, autonomia. Le lezioni sono integrate con esperienze pratiche, i ragazzi leggono un libro a settimana, danno feedback agli insegnanti e si occupano della cura degli spazi comuni.
La scuola di Nairobi è stata selezionata tra le 10 migliori al mondo per la collaborazione con la comunità locale. E secondo una ricerca comparativa, l’82% degli studenti sente di essere preparato a cambiare il mondo — contro un 4% in Italia. Un dato che parla da sé.
Still I Rise dimostra che l’eccellenza educativa, gratuita e accessibile, è possibile anche nei contesti più difficili. E se può accadere in Kenya, può accadere anche qui.
Il secondo incontro è stato con Leandro Aglieri, presidente di Vates Italia, durante il Vates Innovation Summit a Capri, dove ha presentato la sua proposta per una sovranità digitale europea. Un’idea che non riguarda solo l’innovazione tecnologica, ma il futuro della cittadinanza digitale, dell’autonomia strategica e della capacità dell’Europa di generare valore e sicurezza nel rispetto della dignità delle persone e dei territori.
Due persone con background diversissimi. Eppure un tratto comune: la capacità non comune di credere così tanto in una visione da viverla già come realizzata.
Perché porto queste storie? Perché raccontano con forza ciò che vedo accadere, ogni volta che un’idea incontra il coraggio, la struttura, l’alleanza giusta. Perché mostrano che il cambiamento non è un mistero, ma un processo che può essere accompagnato. Perché, soprattutto in questo momento storico, è essenziale cambiare il paradigma di fondo che regola idee, decisioni, empowerment.
Lavorando da anni in processi trasformativi, ho imparato che non basta avere una visione: serve coltivarla, incarnarla, tradurla in realtà insieme ad altri.
Perché alcune visioni si realizzano e altre no?
Chi ha studiato questi processi sa che non è questione di fortuna. Napoleon Hill, negli anni ’30, ha codificato 13 principi per trasformare il pensiero in realtà nel suo libro Think and Grow Rich. Ma oggi la scienza del cambiamento ci offre riferimenti ben più ampi, che aiutano a riconoscere i passaggi ricorrenti che rendono una visione realizzabile.
Sette passi che, negli anni, sono diventati la mia bussola nei processi di cambiamento – e che ritrovo con forza nelle storie che ho condiviso qui:
1 – Tutto nasce da un pensiero
Come scrive Hill: “I pensieri sono cose.” Ma da soli non bastano. L’immaginazione deve essere unita a emozione, movimento e presenza. Carol Dweck ha dimostrato con le sue ricerche sulla growth mindset che credere nella propria capacità di apprendere influenza direttamente la riuscita. Andrew Huberman (Stanford) spiega che l’attivazione emozionale e la visualizzazione vissuta nel corpo creano connessioni neuronali che spingono all’azione coerente.
Il punto è: non basta avere un’idea. Bisogna sentire che ci appartiene, viverla come già possibile, con tutti i sensi attivi. Non è solo un’idea: è una spinta viscerale.
2 – Il desiderio bruciante: la visione radicata
Il desiderio, secondo Hill, è “il punto di partenza di ogni realizzazione”. Oggi potremmo chiamarlo Purpose. Come afferma anche Simon Sinek, “le persone non comprano quello che fai, ma perché lo fai.” Peter Senge, con la sua teoria dell’apprendimento organizzativo, afferma che le visioni reali nascono da un dialogo continuo tra il sé personale e il sistema. Quando questo allineamento è forte, il cambiamento non è più sforzo, ma conseguenza. Una visione che funziona non è un obiettivo ben formulato: è una direzione identitaria. È qualcosa che parla al tuo perché più profondo.
Queste persone parlano della loro visione come di qualcosa “che ha già visto accadere”. Non è narrazione, è intenzionalità incarnata.
3 – Fede e autosuggestione: il processo invisibile
Napoleon Hill è molto chiaro: la fede è uno stato mentale che può essere coltivato. Oggi lo chiameremmo auto-efficacia (Albert Bandura), ovvero la convinzione di poter influenzare gli eventi con le proprie azioni. È il contrario del fatalismo.
È anche una questione di linguaggio: come parli a te stesso cambia le connessioni neurali e rafforza (o indebolisce) l’azione. E si può sviluppare con pratiche semplici: ripetizione, visualizzazione, linguaggio potenziante.
Non è spiritualità vaga. È disciplina mentale, come ben sanno anche gli atleti olimpici o gli imprenditori visionari.
4 – Progettazione organizzata: servono struttura e strategia
Nessuna visione si realizza senza struttura. Hill parla di “progetti organizzati”. Design Thinking, Service Design, Theory of Change, sono strumenti moderni che traducono le visioni in architetture reali. Non si tratta solo di pianificare, ma di prototipare, testare, adattare.
Ma non si tratta solo di pianificare. Otto Scharmer, con la sua Teoria U, parla di “presencing”: un movimento che va dall’ascolto profondo (del sé e del sistema) alla prototipazione rapida e concreta. Serve disciplina, iterazione, apertura al feedback.
Il metodo educativo di Still I Rise, che si fonda su classi aperte, orizzontalità, cura e valori, è altamente progettato, non frutto del caso.
5 – Tenacia e fragilità: resistere, imparare, ritentare
Realizzare una visione non significa essere invincibili. Anzi, chi riesce davvero non nega la fragilità, ma la attraversa.
Hill dedica un intero capitolo alla tenacia. Ma oggi possiamo andare oltre: come dice Nassim Taleb, non basta resistere agli urti, bisogna imparare da essi e migliorare (antifragilità). Ogni visione reale nasce da tentativi, fallimenti, correzioni continue.
“Mi hanno detto mille volte che era impossibile”, racconta Niccolò Govoni. Ma non si è fermato. Ha scritto, ha parlato, ha costruito. E ha contagiato altri.
6 – L’alleanza tra cervelli: moltiplicare la propria visione
Hill la chiama Master Mind; un gruppo di persone connesse da uno scopo comune. Oggi la riconosciamo come intelligenza collettiva. È la capacità di costruire reti vive, coraggiose, capaci di amplificare le idee.
Alcuni tratti distintivi:
- Circondarsi di persone migliori di sé (e non averne paura)
- Attivare fiducia, reciprocità, confronto sincero
- Saper contaminare e lasciarsi contaminare
- Favorire un campo comune di visione e scopo
Questo è ciò che accade nei team visionari, nei progetti riusciti, nelle comunità che trasformano. Per Otto Scharmer serve un campo sociale di co-presenza per permettere al futuro emergente di prendere forma.
7 – Sentire l’esperienza come già accaduta
Un aspetto meno visibile, ma potentissimo: vivere nel corpo l’esperienza del “già realizzato”. Questa è la trasmutazione di cui parla Hill. È lo stesso concetto che troviamo nel lavoro di Joe Dispenza, nella neuroplasticità intenzionale, o nelle tecniche di embodiment: quando senti un’emozione come reale, il cervello inizia a trattarla come tale.
Non si tratta di illudersi, ma di portare il futuro nel presente, per attivare risorse, focus, energia.
E oggi? Cosa non funziona nei processi di cambiamento?
- Visioni troppo vaghe, o al contrario troppo razionali.
- Mancanza di connessione tra corpo, mente e azione.
- Isolamento dei visionari, che non trovano alleanze.
- Paura del giudizio, che blocca ogni primo passo.
- Cultura del controllo, che paralizza l’innovazione
Domande di autovalutazione
- Ho una visione che mi guida davvero, o solo obiettivi da raggiungere?
- La mia visione è radicata nel mio corpo, nei miei valori, o resta un’idea astratta?
- Con chi condivido le mie idee? Chi sono le mie alleanze?
- Quale primo passo concreto posso compiere oggi per avvicinarmi alla mia visione?
Queste storie – così diverse nei contesti, ma affini nella forza trasformativa – ci ricordano che il cambiamento non è un atto isolato. È un processo che si può imparare, sostenere, moltiplicare. Riconoscere i passaggi che portano un’idea a farsi realtà aiuta non solo chi ha una visione, ma anche chi accompagna i processi, chi forma, chi amministra, chi innova.
Per questo racconto queste esperienze: perché aprono spazi di possibilità, tracciano direzioni praticabili, nutrono un approccio al cambiamento che non si limita a immaginare il futuro, ma lo costruisce, passo dopo passo – insieme.