Questo articolo non ha l’obiettivo di essere un’analisi tecnica sull’intelligenza artificiale (IA), né intende affrontare il tema con l’autorità di un esperto del settore. Né tantomeno intende essere una disquisizione filosofica o etica. E nemmeno una seduta spiritica su cosa diventeremo tra vent’anni.
Piuttosto, vuole essere una riflessione personale, in parte ironica, nata da due anni di sperimentazioni dirette e dall’osservazione di come l’IA può interagire con il nostro pensiero, il nostro tempo e, in ultima analisi, con la capacità dell’essere umano di esprimere il proprio potenziale.
Il Mio Approccio all’Intelligenza Artificiale
Da due anni esploro e sperimento strumenti di intelligenza artificiale con un approccio pragmatico e curioso. Ho scelto di testare e comprendere prima di giudicare, consapevole che questa tecnologia rappresenta un’onda inarrestabile: possiamo cavalcarla con consapevolezza e disciplina, oppure esserne travolti.
Gli ambiti in cui l’ho utilizzata sono molteplici:
- Definizione di programmi formativi e percorsi: per organizzare e strutturare proposte su misura.
- Elaborazione di report, analisi e sintesi di dati complessi: per raccogliere e sistematizzare informazioni eterogenee.
- Sviluppo di presentazioni e materiali visivi: per ottimizzare il tempo e focalizzarmi sui contenuti.
- Elaborazione di immagini per articoli e comunicazione visiva.
- Supporto a marketing e diffusione.
In sintesi, uso l’IA prevalentemente per funzioni ripetitive, tecniche o operative, così da liberare tempo per dedicarmi a ciò che ritengo più prezioso: la mia creatività, lo studio, la progettazione e la mia crescita personale e professionale.
Sfido chiunque a dire che non ci sia mai cascato: almeno una volta, una litigata con l’IA ce la siamo fatta tutti. Una discussione surreale, magari culminata in un insulto (scritto, sussurrato o urlato), mentre lei – impassibile e zen – continuava a rispondere con garbo e gentilezza, come se nulla fosse.
Ci penso e mi viene da ridere: ho perso la pazienza con un algoritmo. E l’algoritmo, con la sua flemma da assistente modello, nemmeno si è scomposto. Altro che intelligenza artificiale: quella è resistenza emotiva da monaco tibetano!
Ma in fondo, chi è più umano? Lei che finge pazienza, o noi che ce la perdiamo?
Forse essere umani è proprio questo: perdere le staffe, anche in modo spropositato.
E magari riderci sopra, subito dopo.
IA: Il massimo funzionamento della mente razionale
Oggi si parla molto di intelligenza artificiale generativa, e la road map di OpenAI prevede uno sviluppo sempre più sofisticato nei prossimi anni. Ma la domanda che mi pongo è: è davvero corretto chiamarla “intelligenza”?
Se osserviamo i principi su cui si fonda, l’IA rappresenta l’apice – e al tempo stesso l’amplificazione – della mente logico-razionale: un superprocessore capace di analizzare e restituire dati a velocità impensabili per l’essere umano. Ma è davvero questa l’intelligenza che ci definisce come specie? O è soltanto una porzione – utile ma parziale – di ciò che potremmo chiamare pensiero?
Eppure, se siamo sinceri, dobbiamo ammettere che anche noi – esseri umani – siamo spesso immersi in automatismi mentali. In modelli ripetitivi di pensiero, in idee ereditate, in logiche che non abbiamo scelto davvero. E allora, la domanda arriva, inevitabile e spiazzante: abbiamo mai davvero pensato liberamente?
I nostri pensieri sono davvero nostri, o sono il prodotto di idee già esistenti, rielaborate in modo appena diverso?
Se la tecnologia ha davvero lo scopo di semplificare la vita, la domanda da porsi è: la vita di chi? Per alcuni, il suo valore è strettamente legato alla produttività e al profitto. Per me, invece, dovrebbe essere al servizio dell’essere umano e dell’ambiente – che, tra l’altro, sono parte della stessa realtà interconnessa – e contribuire a liberare, non soffocare, il pieno potenziale umano.
Ma chi decide tutto questo? Noi, ovviamente. O almeno dovremmo. E allora viene da chiedersi: anche ammesso che l’IA potesse davvero arrivare a sostituire completamente l’essere umano, o che potesse svilupparsi all’infinito, senza limiti… vogliamo davvero permetterlo? Se guardiamo la road map di OpenAI, pare che abbiamo già lasciato il volante.
Certo, ci sono molte cose che l’IA sa fare – e le fa anche molto bene. Ma ce ne sono altre che non potrà mai vivere, perché non ha un corpo vivo, né una coscienza incarnata. Non potrà mai respirare l’aria del mattino, sentire il profumo del mare o la freschezza dell’erba sotto i piedi nudi. Anche qualora un giorno avesse un corpo, non proverà mai un sentire autentico.
E soprattutto, non potrà mai avere una vera coscienza. Potrà simulare consapevolezza, imitare emozioni, persino replicare dialoghi profondi. Ma sarà sempre la proiezione, più o meno sofisticata, di chi l’ha programmata.
Ed è proprio qui che entra in gioco la nostra responsabilità collettiva. Perché non si tratta solo di ciò che può fare, ma di ciò che non deve fare. È nostro diritto – ma prima ancora nostro dovere – porre limiti e regole.
In molte attività – dal sostegno psicologico alla guida spirituale – ciò che conta non è solo la parola, ma la presenza: l’ascolto profondo, il sentire sottile, la risonanza energetica. Il fatto che si pensi davvero che l’IA possa diventare psicologo o persino confessore, dimostra quanto spesso vengano sottovalutati gli aspetti intangibili, ma essenziali, di queste esperienze umane.
A questo punto, alcune domande si impongono: l’IA potrà mai accedere a questa dimensione? Potrà mai percepire con il cuore, sentire empatia reale, toccare l’invisibile?
A dire il vero, non mi interessa nemmeno rispondere a queste domande. Perché per me l’IA non deve neanche avvicinarsi a questi aspetti. È proprio qui che il senso delle regole diventa chiaro e urgente.
Intelligenza? Quale?
A rendere il tutto ancora più surreale (o degno di una buona sceneggiatura distopica), ci sono studi che segnalano una tendenza curiosa: a partire dalla fine degli anni ’90, l’intelligenza umana – misurata attraverso i punteggi dei test cognitivi – sta diminuendo. Si parla di un’inversione del cosiddetto Effetto Flynn, il trend che aveva mostrato un aumento del quoziente intellettivo lungo tutto il Novecento.
Questa tendenza, nota come Reverse Flynn Effect, è stata osservata in vari paesi sviluppati. Negli Stati Uniti, ad esempio, una ricerca della Northwestern University ha rilevato un calo significativo in tre su quattro categorie cognitive tra il 2006 e il 2018. In Norvegia, uno studio ha riscontrato un abbassamento dell’IQ tra gli uomini nati dopo il 1975, legato a fattori ambientali, non genetici.
Le possibili cause? Cambiamenti nei sistemi educativi, uso intensivo di dispositivi digitali, riduzione della lettura, esposizione costante a stimoli rapidi, frammentati e superficiali. Tutto questo fa tornare alla mente – con un sorriso tirato – il film Idiocracy: una distopia grottesca in cui il declino cognitivo collettivo diventa la nuova normalità.
Esagerazione? Forse. Ma la provocazione è reale: cosa stiamo facendo oggi per coltivare le nostre capacità cognitive in un mondo sempre più automatizzato?
E allora, sì: è lecito chiedersi se l’aumento dei sistemi automatizzati non stia accompagnandosi – o forse contribuendo – a un declino dell’intelligenza umana, in una dinamica quasi inversamente proporzionale.
Ma, soprattutto, quando parliamo di intelligenza… di cosa stiamo parlando davvero?
Quale intelligenza intendiamo? Quella logico-razionale, che si misura con i test cognitivi? Quella che riconosciamo nei fogli Excel, nei quiz a risposta multipla, nelle risposte rapide e ordinate?
È questa la stessa intelligenza che attribuiamo oggi all’IA?
Oppure c’è qualcosa che sfugge, che non si misura, che non si spiega in numeri ma si manifesta nel silenzio, nell’intuizione, nel corpo, nelle emozioni, nella relazione?
L’IA al Servizio dell’Umano: Una Visione Sostenibile
Personalmente, credo che lo scopo di una vita degna di questo nome sia la realizzazione di sé. Non nel senso dei “10 step per diventare la versione migliore di te”!
Carl Gustav Jung definiva questo percorso principio di individuazione: un processo di integrazione tra le varie parti della psiche – consce e inconsce – che porta l’individuo a diventare pienamente se stesso, unico e irripetibile. Non si tratta di “diventare migliori”, ma di integrare ombre, simboli, esperienze e crisi trasformative.
Altri autori hanno descritto in modi differenti questa tensione verso la realizzazione: Abraham Maslow, ad esempio, la definiva self-actualization, ovvero l’attualizzazione di ciò che si è destinati a essere, al vertice della sua celebre piramide dei bisogni. Viktor Frankl parlava invece di ricerca di senso come motore dell’esistenza. Tutti approcci che mettono al centro un’idea di crescita che è profonda, soggettiva, esistenziale.
Ma cosa accade se, in un mondo sempre più automatizzato, delegassimo anche gli spazi più sottili e vitali – quelli dell’intuizione, della creatività, della decisione – a una macchina che “pensa per noi”?
In altre parole, scrivere poesie, dare consigli profondi, dipingere emozioni: se potrà farlo anche l’IA… noi che ci stiamo a fare qui?
Pensare che l’IA possa fare lo psicologo o il confessore dice molto più di noi che della macchina.
L’essere umano e l’IA: quale relazione?
L’intelligenza artificiale è qui, e si evolve in fretta. Non possiamo ignorarla né combatterla. Non possiamo fermarla, ma possiamo decidere come danzare con lei.
Forse la vera domanda non è se l’IA ci supererà, ma se abbiamo mai davvero pensato liberamente. La sfida che ci pone non è solo tecnologica, è esistenziale.
Come possiamo coltivare la nostra unicità, la nostra sensibilità, la nostra intelligenza profonda in un mondo sempre più automatizzato?
Come possiamo proteggerci dal rischio di diventare noi stessi sistemi automatizzati, ripetitori inconsapevoli di schemi imposti?
Paradossalmente, l’irruzione dell’IA sembra portarci un messaggio: uno scossone per risvegliare l’essere umano, certo brusco e in parte traumatico, ma forse necessario. Un invito a tornare a sé, a riconnettersi con la propria essenza irripetibile, con i propri talenti, con un potenziale da mettere al servizio della vita e del mondo.
Più che interrogarci con la sola mente razionale, potremmo iniziare ad auto-osservarci. Scoprire i pattern mentali che ci abitano.
E soprattutto: riattivare i sensi, tornare al corpo, all’intuizione. Allenare uno sguardo che sappia cogliere anche l’invisibile, quell’universo sottile che rappresenta il 95% della realtà e che sfugge agli algoritmi.
Prendere consapevolezza della disconnessione da noi stessi – e, di riflesso, dagli altri e dalla natura – è forse il primo passo per riavvicinarci al nostro vero potenziale.
In fondo, la vera rivoluzione epocale non è l’intelligenza artificiale.
È l’essere umano che si ricorda di esserlo.
Altro che IA.
E questa, in fondo, è la riflessione più importante.
Domande per riflettere
- Sto usando l’intelligenza artificiale per liberarmi… o per delegare a lei anche ciò che dà senso a ciò che faccio?
- Dove inizio io, e dove inizia il pensiero che qualcun altro – o qualcosa d’altro – ha già pensato per me?
- Riesco ancora a sentire cosa è autentico, mio, vivo… senza chiedere conferma a un algoritmo?
- E se disattivassi tutto per un momento, cosa rimarrebbe?
- Ho davvero bisogno di una risposta… o di fare spazio a una domanda che non ho ancora avuto il coraggio di farmi?
Se dopo aver letto questo articolo hai sentito l’impulso di aprire Instagram, tranquillo: è solo il tuo algoritmo interiore che cerca conferme. Respira. Sei ancora umano.